Un compito decisamente ingrato quello del critico, qualsiasi sia il suo ambito di interesse. Delineare un percorso unanime tra pensiero, avanguardia sociale, ed una valida espressione artistica in grado di proiettare le utopie e le controversie della mente umana è pressoché impraticabile. E mai come con l’avvento della modernità, quella vera ed in grado di lasciarsi alle spalle gli ultimi avvampi del romanticismo fine ottocentesco, si formano domande che non trovano risposta. Perché un transessuale (simbolo del nuovo millennio, almeno sul piano sessuale – ndr) immortalato da Nan Goldin o uno dei tanti mazzi di fiori fotografati dal visionario Wolfgang Tillmans meritano, a fur di popolo, di far parte di una collezione d’arte mentre scatti – icone stampati in milioni e milioni di copie sui quotidiani più prestigiosi del mondo raramente ottengono questo assoluto privilegio?
Difficile rispondere, ma sta di fatto che una risposta, sebbene in parte riduttiva, sicuramente appropriata: praticamente da sempre, i fotografi di professione sono accerchiata da una vera e propria cerchia a loro affine, quella che potremmo definire degli “artisti fotografi”. In poche parole, coloro che tengono basse, molto basse le tirature delle proprie fotografie ed ottengono per svariati motivi prezzi altissimi, conquistandosi così un accesso diretto ad aste, mostre e talvolta musei, se il cognome è di quelli che pesano. Spesso, nemmeno il pubblico più informato riesce a cogliere il profondo perché che spinge curatori e galleristi ad orientarsi verso uno scatto piuttosto che un altro. Il solo aggettivo ‘classico‘ ha sempre conferito nel corso della storia un valore aggiunto. Tutte le categorie ritenute classiche della pittura, quella dei primi ritratti baronali ed in seguito il paesaggismo esasperato fino ad arrivare alla conseguente traduzione fotografica, si sono contraddistinte per essere state assorbite con grande facilità nei maggiori musei del mondo.
La fotografia merita tuttavia un discorso a parte, pur seguendo sostanzialmente la stessa linea base. Quella che (farlo ora ha poco senso – ndr) potremmo definire la fotografia d’autore, viene tutt’ora autenticata come quella unica e non appetibile ai media. Reportage, esitazioni su corpi nudi ed inermi, manipolazioni intime e moderne al sapore di photoshop sono solo alcuni degli ingredienti della fotografia d’autore. Da questi nitidi presupposti nasce il profondo bisogno umano di ordinare la materia (vedi Pitagora nel campo numerico – ndr) ad un ordine di idee superiore, Platonico, semplicemente moderno. Una grande analisi a questo proposito è presentata da Charlotte Cotton nel suo libro “La fotografia come arte contemporanea“, in Italia edito da Einaudi. In grande stile e con notevole personalità, data la giovanissima età, l’autrice affronta di petto i grandi drammi filosofici ed etici dietro l’arte contemporanea coniugata all’ennesima potenza in fotografia & collage; per farlo, nulla di meglio della sua esperienza.
Il County Museum di Los Angeles ed il Victoria & Albert di Londra sono solo due tra i blocchi salienti che la Cotton utilizza a suo vantaggio, con piglio quasi studentesco, per riepilogare i filoni fotografici cosiddetti d’arte. La verità in fondo, non esiste, e non sta a noi cercarla nei gesti umani. C’è una linea di demarcazione, tra la fotografia che vanta i suoi legami nel mondo del lusso e per pochi, e tra quella pop (popolare, nel senso meno offensivo del termine – ndr), il sistema d’arte che concede più varietà di visione e forma.
Un esempio lampante di quest’ultima categoria è Pietro Masturzo, l’italiano vincitore del prestigioso premio World Press Photo ’09, aggiudicatosi con la foto qui sotto.
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